Devo dire, in tutta sincerità, che aspettavo questa occasione, l’occasione di scrivere qualcosa su San Giovanni che non fosse, o non fosse soltanto, di contenuto archeologico. San Giovanni è, per molti versi, una specie di specchio di Portoferraio. I sangiovannini sanno di far parte della comunità portoferraiese ma si sentono come un clan a parte, forse anche giustamente. San Giovanni è la destinazione di certe gite della prima infanzia fatte con nonna Gina e con il Chicchero: si partiva dal molo Elba, si arrivava a San Giovanni, si giocava, si faceva merenda e si tornava indietro.
In questi giorni mi capita di guardare spesso le immagini pubblicate su Facebook da “Elbaincartolina” e “CasalinodelCastagno”. Al di là della suggestione suscitata da queste splendide immagini e del rammarico per la tanta bellezza ormai andata irrimediabilmente perduta, resta un sentimento di gratitudine per chi mi ha messo al mondo in un posto tanto particolare e un desiderio di volgere il tutto in maniera positiva. E allora queste cartoline non saranno più soltanto specchi di nostalgia per un mondo ormai scomparso ma, soprattutto, fonti utili alla ricostruzione dei paesaggi del passato. Queste immagini ci portano in una San Giovanni e in una rada di Portoferraio delle quali non sappiamo praticamente nulla.
Una cosa la sappiamo: che ci sono ancora tantissime cose da sapere. Se escludiamo il centro storico di Portoferraio o, per meglio dire, la parte di Portoferraio che comincia con lo scomparso canale del Ponticello e arriva alla Darsena, la prima emergenza ambientale-archeologica-storica significativa è rappresentata dalla vecchia collina del Lazzeretto. Questa altura è composta da aplite, la roccia bianca picchiettata di nero che si trova anche lungo la costa compresa fra Le Ghiaie, Capo Bianco e Monte Bello. Le screziature nere della roccia erano poeticamente spiegate da Apollonio Rodio (III secolo a.C.) con gli schizzi di sudore degli Argonauti compagni di Giasone nell’avventura del vello d’oro: durante la lunga navigazione fecero sosta nell’isola di Aithale-Elba e improvvisarono delle gare sportive, una sorta di piccola olimpiade. Sulla collina vi sono tracce di un insediamento pre- e protostorico che potrebbe rappresentare il più antico abitato di Portoferraio (un santuario?).
Al fianco esterno di quella stessa collina si appoggiano i resti dell’ultimo grande monumento di archeologia industriale di Portoferraio. Quel capannone dall’aria cadente avrebbe tutta la stoffa per essere recuperato nelle sue volumetrie e nelle sue forme architettoniche e diventare il terminale del porto, ospitare attività, funzioni, gestioni, esercizi commerciali. Che colossale spreco! E quando anche quel che resta dell’altiforno sarà stato raso al suolo o svilito per qualche ardita sperimentazione in architettese, chi saprà più spiegarsi il toponimo “porto ferraio”?
Al pendio verso mare della collina si appoggiano i resti, cadenti, del Palazzo Coppedè, destinato a diventare non si sa più bene che cosa.
Proseguendo oltre, a partire dalla zona nella quale si trovano oggi i cantieri, si estendevano, un tempo, le saline. Oggi è una delle aree più degradate dell’isola d’Elba e non solo perché dove erano le vasche sorge ora la c.d. zona industriale. Per i portoferraiesi quella zona è “la loppa”, dal nome della scoria d’altoforno che usciva dal processo di riduzione della ghisa. Ci accorgiamo, però, che tranne rare e lodevoli eccezioni, nessuno ha mai studiato adeguatamente i processi di formazione di quegli enormi accumuli e, soprattutto, si sente la necessità di avere notizie più circostanziate in relazione alla loro composizione.
In corrispondenza della località “Orti” il piano di campagna si abbassa sensibilmente e si forma una vasta area pianeggiante e depressa che arriva fino ad un’altra località dal nome suggestivo e illuminante: le Foci. Già, ma “foci” di che cosa? Probabilmente del fosso di San Martino (o della Madonnina), un corso d’acqua importante nell’entroterra portoferraiese, talvolta autore di autentici dissesti. In antico dobbiamo quindi immaginare una profonda insenatura all’interno della rada; oppure una vasta area lagunare, forse separata dal mare da un cordone dunale, poi rimosso. Come che sia, doveva trattarsi di un paesaggio completamente diverso dall’attuale. Sarebbe auspicabile saperne di più dal punto di vista geomorfologico prima di intraprendere progetti potenzialmente pericolosissimi come quello del waterfront.
Tutta quella zona può e deve essere bonificata e recuperata ad usi e funzioni stabili e compatibili. Sul fatto che gli “Orti” debbano tornare ad essere gli orti suburbani di Portoferraio non mi pare ci sia da dibattere. Bisogna sperimentare nuove formule e nuove strade, d’intesa fra amministrazioni, imprenditoria e distribuzione (grande e piccola). Anche le grandi catene potrebbero trovare utile e conveniente incentivare il “km zero” in alcune filiere locali.
La rada procede così in direzione di San Giovanni e delle Grotte. Tutto quel litorale merita di essere recuperato e valorizzato, con finalità ricreative e sportive, principalmente. Tutta quella zona può diventare il giardino di Portoferraio piuttosto che il suo stanzino di sgombero.
Ci sono, a mio modesto avviso, due strade da non percorrere: anzitutto l’ulteriore cementificazione e aumento delle cubature, eco-insostenibili (l’isola è satura), inutili (sono da escludere ulteriori sviluppi quantitativi del turismo) e dannose (per gli effetti che hanno su una struttura geomorfologica a rischio); poi, la rinaturalizzazione di superfici fin qui malamente utilizzate: è dimostrato che il reimpianto di specie arboricole, anche presumibilmente autoctone, oppure il ripristino, provochino nelle aree molto antropizzate danni ancora peggiori dell’antropizzazione medesima. L’Elba coltivatissima e quasi priva di boschi che si vede nelle cartoline non doveva spendere per le esondazioni o per i danni prodotti dai cinghiali.
L’unica strada percorribile prevede l’uso intelligente e sostenibile delle superfici, un uso che consenta agli spazi di conservarsi e di autoriprodursi nel tempo. E’ una scelta resa in qualche modo obbligata dai tempi della crisi: massima resa (in termini di bellezza coniugata alla produttività) con il minimo di spesa (è finito il tempo dei grandi investimenti). Bisogna ottimizzare e raggiungere un livello di razionalità che sia dei fini (gli scopi da raggiungere) ma anche dei mezzi (gli scopi vanno raggiunti senza distruggere suolo e senza consumare troppa energia). Riprendere a coltivare vuol dire spendere meno nutrendosi meglio.
Ambiente e cultura possono dare, da qui in avanti, un grande contributo, in tutti i sensi. Dal nostro piccolo scavo archeologico di San Giovanni, che speriamo di potere riprendere quest’anno (soldi permettendo), stanno venendo fuori dati straordinari sulla storia e sull’archeologia dell’Elba.
Ma questi li racconto un’altra volta.
Franco Cambi (isolano)
Docente di Archeologia dei Paesaggi
Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti
Universita’ di Siena

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