gita al monte giove

L’amica Rossella Celebrini, imprenditrice brava e sensibile, mi aveva chiesto di scrivere un breve testo “archeologico” per la sua rivista Elba 2per2, rivista e portale web di promozione turistica. Sono lieto di sapere che il mio modesto contributo, peraltro corredato da eccellenti fotografie, sta avendo una buona circolazione presso il pubblico turistico. In quello scritto partivo da una serie di considerazioni “coloristiche”. Invece di affrontare, come spesso si fa, il tema dell’archeologia dal punto di vista dei tempi e dei luoghi, decisi di partire dai colori che l’archeologia può avere all’isola. I colori scelti, in maniera del tutto pretestuosa e opinabile, erano il blu, il verde e la fuliggine. A ciascuno dei tre colori avevo collegato un Museo: il blu della rada di Portoferraio alla Linguella, il verde dei boschi al Museo di Marciana, il colore della fuliggine al Museo di Rio Elba. Ho deciso di provare a riscrivere questo racconto dei colori in archeologia.

[message_box title=”Il blu” color=”blue”]I geologi che fanno parte del gruppo “Aithale” (Marco Benvenuti e Andrea Dini) dicono che l’Elba, dal punto di vista mineralogico, rappresenta una sintesi, quasi un manuale, della geo-diversità dell’intero continente europeo. Appena possono, Marco e Andrea portano i loro studenti all’isola per fare degli stage. In pochi altri luoghi si trova tanta geologia tanto concentrata. Andando oltre le parole-chiave (granito e minerali di ferro) si trova molto altro, come si vede visitando il Museo Mineralogico e Gemmologico di San Piero, nel cuore dell’Elba occidentale oppure anche dando un’occhiata al profilo FB del Museo stesso oppure partendo dai “cinquemila elbani” (nel senso di minerali) esposti nel nuovo Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. Dice Andrea Dini che nella parte centrale dell’Elba si trovano i più bei porfidi che abbia mai visto.

La percezione dei colori è centrale in un’isola mediterranea. I colori usualmente associati all’Elba sono il verde e il blu, forti in una bella giornata di tramontana o di grecale, venti che amplificano il timbro smeraldino delle piante e il cobalto del mare. Museo della LinguellaIl Museo archeologico della Linguella, a Portoferraio, si staglia sul blu della rada e racconta molte storie diverse: le grandi navigazioni che interessarono l’Arcipelago a partire dall’VIII secolo a. C., quindi dal tempo della colonizzazione greca e delle grandi navigazioni fenicie; la vivacità della rada di Portoferraio fra l’età del Ferro e l’età etrusca più antica; le fortificazioni costruite dagli Etruschi di Populonia; le ville marittime destinate all’otium di illustri senatori romani (La Linguella, Capo Castello e Le Grotte); i consumi alimentari del periodo romano. Molto di questo BLU è, dunque, non solo la superficie della rada ma anche le profondità dalle quali provengono, attraverso le anfore dei relitti, drammatiche storie di naufragi.

Sulla rada si affacciano anche racconti finora ritenuti impensabili. Il paesaggio della rada ospitava comunità e gruppi sociali molto differenti. Gli Elbani del passato remoto sono, dal punto di vista etnico, sfuggenti ma questo non deve meravigliare. In un mare ad alta densità di circolazione (uomini, donne, oggetti, tecnologie, idee) le comunità cambiavano continuamente, al punto da dovere, in alcuni casi, restaurare via via le proprie tradizioni e i propri usi.
La storia e l’archeologia di questi luoghi fanno capire che, più che i caratteri fisici di questo o quel gruppo, erano i caratteri culturali a contare. La cultura e la lingua trionfanti furono per molto tempo quelle dei Greci, più visibili e vincenti da vari punti di vista, spesso anche rispetto a superpotenze politiche e militari più forti, come i Persiani. Ancora più visibili e vincenti furono i mixing fra Greci e popolazioni locali. Alcune analisi condotte sul DNA di scheletri trovati in tombe della Magna Grecia mostrano che, tre-quattro generazioni dopo l’arrivo dei coloni dall’Ellade, la distinzione fra Greci e autoctoni si era alquanto assottigliata, a favore di un’unica comunità ibrida. In queste comunità ibride, poi, si potevano perpetuare le tradizioni oppure adottare usanze e comportamenti provenienti dall’esterno. A pensarci bene, anche Populonia aveva una identità variegata, per gli antichi, che non sapevano decidere se la città fosse stata fondata dai Corsi, fosse colonia di Volterra o fosse stata strappata ai Corsi dai Volterrani. Sicuramente, a Populonia e dintorni i Corsi erano di casa (vi sono molti oggetti còrsi nelle tombe di Populonia) e sulla costa e nelle isole la situazione etnica era piuttosto fluida e soggetta a variazioni. Ricerche recenti condotte presso la rada di Portoferraio, mostrano che i Corsi dovettero frequentare l’isola assiduamente, almeno a partire dal 1000 a.C. e fino al III-II secolo a.C., mantenendo anche alcune loro tradizioni, come quella di seppellire i morti in grotticelle scavate sotto i massi. Eppure, quando potevano, inserivano nel rito funerario “còrso” degli elementi di corredo esterni, come le coppe di provenienza greco-coloniale.

Quello che può sembrare strano è il loro disinteresse per un rituale funerario di grande impatto come quello etrusco. Evidentemente, gli impressionanti tumuli che certamente dovevano aver visto nel golfo di Baratti, a Populonia, non dovettero colpirli più di tanto e, per 800 anni, continuarono a seppellire i loro morti nella rada secondo la liturgia tradizionale. L’archeologia dell’Elba affacciata sul blu della rada racconta la vicenda di un’isola sospesa fra grandi cambiamenti e grandi conservazioni ma sempre, comunque, esposta ai forti venti della storia, anche in tempi molto lontani: Corsi, Greci, Punici, Etruschi, Romani…[/message_box]

[message_box title=”Il verde” color=”green”]Il BLU della puntata precedente, ritrovato dopo giorni di pioggia battente, è tornato a governare la rada di Portoferraio. Dal promontorio delle Grotte si fa in tempo ad acchiappare l’ultimo tramonto, a guardare arabeschi di nuvole nel cielo rosso e la falce di luna sopra il profilo del Monte Capanne. Poi, rapidamente, il blu si fa cobalto e va via, lasciando il posto all’attacco del concerto dei “Lontano da qui”, ai timbri precisi delle due chitarre, alle percussioni e alla voce “da fado” di Elisa Castells. La rada di Portoferraio sparisce nella musica e anche le ombre dei Valeri Messalla, degli Aureli Cotta e di Ovidio si eclissano. L’ultima immagine e l’ultimo quesito, però, sono ancora archeologici. L’immagine, verde scuro nel crepuscolo, è quella di Monte Orello, proprio sopra Le Grotte. E’ un’altura importante, sede di una sorgente che potrebbe avere alimentato la stessa villa e, non solo. Mi chiedo anche se questo toponimo non possa essere molto antico. Forse, come la strada detta dell’Origlio, che fiancheggia il lago di Burano a Capalbio, deve il suo nome alla via Aurelia antica, così Monte Orello potrebbe derivare il suo nome dagli Aurelii, probabili ultimi proprietari della villa. Mi viene anche in mente che a Campiglia Marittima si trova un’altura, ormai orrendamente divorata dale cave, che si chiama Monte Valerio. Aurelii e Valerii ebbero forte presenza in questa parte dell’Etruria e in Sicilia e dovettero sviluppare, nel tempo, una sorta di solidarietà gentilizia, ed economica, nelle zone che avevano, in un modo o nell’altro, contribuito a conquistare per lo Stato romano. E lasciarono anche forti impronte toponomastiche. Sulla costa furono molto presenti anche gli Aemilii, che hanno lasciato traccia nella pineta di Rimigliano (da Rivus Aemilianus), nel torrente Milia e a Scarlino (per motivi che sarebbe lungo descrivere).

Gli interessi economici potevano essere i più diversi: sfruttamento dei ricchi bacini metalliferi e dei materiali da costruzione (un valore aggiunto nel caso dell’Elba e dell’entroterra di Populonia), produzione del carbone, sfruttamento delle millenarie reti mercantili. Ma quali che fossero le possibili specializzazioni, una condizione era ineludibile: l’autosufficienza idrica e alimentare. L’amico Alessandro Corretti potrebbe descrivere molto meglio di me l’importanza dell’Elba, e delle isole toscane, nelle navigazioni di lungo corso dei Greci a partire da epoche remotissime. I Focei che fondarono Marsiglia avevano ben stampati nella mente forme, profili e colori delle terre che via via apparivano all’orizzonte navigando verso ovest. Vi erano isole brulle e povere di cibo, come le Ponziane, per esempio, e isole verdissime e prospere, dove il cibo abbondava e le sorgenti sgorgavano pressoché ovunque. Non è, del resto, un mistero il fatto che l’Elba abbia conservato una sostanziale autonomia alimentare fino a tempi recentissimi. Ancora negli anni ’50 e ’60 le produzioni olearia, ortofrutticola e carnea erano elevate, per non parlare del vino, consumato localmente ma anche esportato in Liguria e in Piemonte, e, naturalmente, della pesca. La solidità di questa struttura, importante nelle epoche a noi più vicine, praticamente fin quasi a ieri, diventava decisiva per le economie e per le comunità del passato, per motivi facilmente intuibili. Ciò comporta, come inevitabile corollario, il fatto che le isole come l’Elba fossero molto coltivate. Il paesaggio insulare, insomma, doveva essere molto diverso da quello odierno, fin troppo verde e fin troppo boscoso. Non era certamente brullo ma coltivato, pressoché ovunque, dai fondovalle fino alle alture più elevate e nelle forme più diverse. Se andiamo a recuperare fotografie e cartoline dell’Elba stampate dagli anni ’20 agli anni ’60 ci troviamo di fronte un’isola molto meno boscosa e più coltivata. Oggi, nonostante le fitte foreste e i boschi, andiamo continuamente sott’acqua (anche pochi giorni fa). Certamente viviamo una fase di anomalo aumento della piovosità e scontiamo gli effetti di politiche urbanistiche del tutto errate. Ma abbiamo anche seguito filosofie ambientali improprie. Uno degli errori più marchiani commessi dall’ambientalismo fine a sé stesso e dalle discipline di governo recenti è stato quello di pensare che rimboschimenti e trionfo indiscriminato del verde selvaggio potessero prevenire i disastri provocati dall’acqua. Nella realtà, pioggia e cementificazione hanno trovato un alleato prezioso, e insperato, nella presunzione sbagliata che i contesti si potessero ri-naturalizzare. La natura è tornata, oggi, ma non nelle forme che le comunità umane avrebbero preferito, dalla Lunigiana alla valle dell’Albegna all’Elba. Il fatto è che, dal momento in cui l’uomo ha deciso di trasformare l’ambiente a suo uso, consumo e piacimento, ne è diventato responsabile a pieno titolo e non può esimersi dal gestirlo.

Ormai non possiamo più scindere stato di natura e stato di cultura. Trovo, personalmente, insoddisfacente il fatto che la cultura non compaia, se non in maniera occasionale, nelle attività del PNAT. Perché il PNAT è impostato in maniera così settoriale? Perché si occupa soltanto di quadri ambientali e non anche di valori storici (archeologia, paesaggi, configurazioni geografiche, modi di uso del suolo)? Siamo tutti d’accordo, immagino, sul fatto che l’accesso al cuore dell’isola (delle isole) non debba essere soltanto una passeggiata nel verde ma anche immersione nella storia, nelle geografie e nei paesaggi del passato. Tutte cose, queste, poco o niente valorizzate e descritte.

Il Museo più verde dell’Elba è certamente il Museo Civico Archeologico di Marciana. Ristrutturato e riaperto nel 2002, si staglia sul muro verde di vegetazione e grigio di granito che sale verso la vetta del Monte Capanne. Il museo racconta la storia del territorio dell’Elba occidentale attraverso gli strumenti litici del Paleolitico e del Neolitico e i ricchi insediamenti di Madonna del Monte e di Monte Giove (età del Bronzo). gita al monte gioveAll’età del Ferro (VIII secolo a.C.) sono databili le asce del “ripostiglio” di Chiessi e i corredi delle necropoli rupestri del Monte Capanne. Una sezione è dedicata allo sfruttamento del granito. Sono illustrati i relitti di due navi affondate nella baia di Procchio: una nave oneraria romana ed una piccola nave mercantile della fine del 1700.
L’aspetto saliente di questo piccolo e agguerrito Museo è certamente il suo essere una porta, quasi un invito, a camminare fra i graniti dell’Elba occidentale. Percorrete questi sentieri e troverete un’Elba scomparsa, fatta di pastori inghiottiti dal tempo senza tempo delle lunghissime durate. Un’altra Elba ancora, verrebbe da dire, dove i modelli culturali provenienti dall’esterno arrivavano certamente, come dimostrano le prestigiose ceramiche greche di età arcaica della Madonna del Monte (luogo di culto da sempre) ed erano percepiti come elementi di cultura “alta” ma dovevano integrarsi con tradizioni forti, esistenti sul posto dalla protostoria (età del rame e del bronzo), forse parzialmente “locali”, forse mutuate dalla vicina Corsica.
Attraversate questa porta ed entrate in questo verde intenso. Vi accorgerete che gli scarponcini da trekking non servono soltanto per osservare la natura ma anche per recuperare le immagini, purtroppo ancora sfuocate (per mancanza di comunicazione) di civiltà e comunità scomparse.
Mi congratulo con Mario Ettore Bacci per la sua archeologia raccontata ai bambini nel Museo (blu) della Linguella. Ringrazio Archeo Color Aps e i Lontano da qui per la bella serata, offerta alla mia famiglia e a tanti amici ritrovati.[/message_box]

[message_box title=”Fuliggine” color=”black”]Avevo detto (in “BLU”, due puntate fa), che la percezione dei colori è centrale in un’isola mediterranea. I colori usualmente associati all’Elba sono il verde e il blu, forti in una bella giornata di tramontana o di grecale, venti che amplificano il timbro smeraldino delle piante e il cobalto del mare. Poi, il racconto proseguiva fra il blu della rada di Portoferraio e della Linguella e il verde del monte Capanne e del museo di Marciana. Mondi lontanissimi, a pensarci bene, ma, a tratti, nella storia, improvvisamente e drammaticamente riavvicinati da complesse vicende culturali.

I Greci avevano chiamato l’Elba “Aithale” (del colore della fuliggine) perché l’isola appariva a quegli antichi navigatori, come una massa scura sul mare, del colore della fuliggine, come ha ben spiegato Alessandro Corretti. Certamente questo attributo coloristico si coniugò, presto ma non da subito, con l’immagine dei fumi che uscivano dai sempre più numerosi forni per la riduzione dei minerali di ferro. La massa scura era, però, frequentemente interrotta da episodi coloristici di tono diverso. Faccio un esempio: due anni fa, mentre scavavamo le mura antiche di Populonia, mi capitava spesso di lanciare nostalgiche occhiate dal promontorio di Baratti alla costa nord dell’Elba. Nelle giornate limpide si vedeva nettissima, come una ferita aperta, la frana di roccia bianca che interessa il litorale fra Sottobomba e Montebello. Anche i navigatori antichi, avvicinandosi, scoprivano che lo scuro dell’isola era rotto, qua e là, da una serie di incidenti cromatici: spiagge chiare, rocce rilucenti, promontori bianchi. Questi luoghi erano punti di riferimento preziosissimi per chi navigava senza bussola e senza sestante, potendo contare soltanto sull’osservazione del sole e degli astri e su portolani ormai perduti. Queste eccezioni cromatiche erano utili a identificare luoghi ricchi (di acqua, di cibo e di altre risorse), zone abitate da amici/nemici, buoni approdi. Spingendo il ragionamento ai limiti, queste macchie di colore potevano segnare la differenza fra la vita e la morte. I “Capo Bianco” e “Punta Bianca” (a Portoferraio, a Porto Azzurro, a Capoliveri) e la spiaggia delle Pietre Albe a Pomonte si chiamano così dalla notte dei tempi: il bianco riflettente delle rocce di aplite o di altre rocce chiare spezza il verde, il blu e la fuliggine. Talvolta, si aggiungono ulteriori elementi di contrasto (Terra Nera, Punta Nera).

Museo delle Miniere di Rio ElbaQuando arriviamo nell’Elba orientale, troviamo altri mondi ancora. Soprattutto, troviamo un mondo molto minerale e orizzonti antichissimi, ottimamente descritti nel MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DEL DISTRETTO MINERARIO DI RIO NELL’ELBA. Questo Museo è importante perché, come quello di Marciana, risale, nel suo rifacimento, alla fase iniziale della progettazione del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, fase in cui la politica del Parco contemplava anche i valori storici (la vicenda umana) e non solo i quadri ambientali.

Il Museo, allestito nel moderno edificio del Barcocaio nel centro storico del paese, illustra la storia dello sfruttamento dei ricchi giacimenti minerari (soprattutto ferro) della parte orientale dell’isola, dalla Preistoria al Medioevo. Uno degli insediamenti archeologici più affascinanti dell’isola intera è certamente la grotta di San Giuseppe a Rio nell’Elba, luogo di sepoltura di un villaggio utilizzato per più generazioni, tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C. Fino a pochi mesi fa, potevamo affermare che la popolazione era coinvolta in attività di estrazione locale e di transazione del rame, partecipando alle coeve culture dell’area meridionale della Toscana continentale e dall’alto Lazio. Oggi, grazie agli studi di Marco Benvenuti e di Caterina Mazzotta sussistono dubbi su una lavorazione del rame elbano su vasta scala. Lo studio antropologico dei resti (appartenenti a circa 90 individui), illustrato in vari pannelli che analizzano le patologie e il tipo di nutrizione, contribuisce ad inquadrare questa popolazione in una società che traeva il proprio benessere da un’economia florida.

Una fiorente attività metallurgica sembra caratterizzare anche il periodo compreso tra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro, cui sono riferibili ripostigli e corredi funerari pervenuti da collezioni private e recenti ritrovamenti: il nucleo di oggetti che compongono il ripostiglio di San Martino provenienti dalla Collezione Foresi, un cinerario fittile trovato in associazione con numerosi frammenti di bronzo a Cima del Monte e reperti ceramici e metallici rinvenuti di recente nella zona del Volterraio. Ad una fase avanzata della prima età del Ferro risalgono altri reperti della Collezione Foresi: il ripostiglio di sole asce di Colle Reciso ed una sepoltura dalla montagna di Campo con corredo di armi, fibule e frammenti di vari oggetti metallici.

Nella sezione etrusca sono esposti, per la prima volta, i reperti dei corredi tombali di età tardo-arcaica e proto-classica, provenienti da tombe a cassone trovate a Le Trane (Portoferraio) e i materiali relativi ad un grande opificio – il primo impianto siderurgico antico venuto in luce all’Elba – scoperto di recente a San Bennato (Rio Marina).

A Rio Elba è particolarmente attiva Cinzia Battaglia guida ambientale e anima della Casa del Parco “Franco Franchini”, dove organizza bellissimi stage di carattere ambientale e archeologico per grandi e piccoli.

Concludo con una promessa che, forse, è anche una minaccia. Nei prossimi giorni, se ci riesco, proverò a raccontare una storia che è un po’ un romanzo. Qualcosa che non è dimostrabile ma che potrebbe essere accaduto da queste parti, più o meno tremila anni fa. [/message_box]

Franco Cambi

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