Se, andando a ritroso nel tempo, ma con la coscienza dell’oggi, potessimo sorvolare, come fa un gabbiano, le coste elbane degli anni ‘50, quello che colpirebbe il nostro sguardo acuto sarebbero i litorali semideserti, anche in piena estate, le colture che lambiscono la spiaggia, i pagliai a pochi passi dalla battigia, la mancanza di edifici alle spalle degli arenili.

Ci sorprenderebbe anche il paesaggio meno verde dell’attuale, perché la macchia mediterranea era tenuta lontana dai paesi e qualsiasi fazzoletto di terra andava coltivato e reso produttivo. L’Elba, che usciva dalla guerra e dallo smantellamento della sua industria siderurgica a Portoferraio, poteva ancora contare sul cuore minerario pulsante di Rio, Rio Marina e Capoliveri, sull’antica lavorazione del granito di San Piero e Sant’Ilario e sulla dura arte della navigazione di molti dei suoi uomini e ragazzi, che diventavano marinai e mozzi sui mercantili di mezzo mondo. Chi non era minatore o scalpellino o non andava d’accordo col mare, era agricoltore o pescatore o commerciante. Talvolta queste attività si fondevano: si tornava dalla cava e si zappava la vigna oppure si prendeva il gozzo e si calava un tramaglio. Tutto per mettere insieme il pranzo con la cena.

La vocazione turistica dell’isola era incerta, anche se i più lungimiranti avevano già intuito le potenzialità del territorio: come non pensare infatti che un paesaggio naturale e umano così vario, con i colori dominanti del verde e dell’azzurro, con un mare incontaminato, spiagge dorate, paesini come presepi e un capoluogo storicamente importante, non attirasse gente per il ristoro del corpo e dello spirito? E così, nelle cartoline illustrate di quel decennio, accanto alle immagini di un’Elba oggi scomparsa, col cavallo da lavoro in primo piano, le agavi col loro raro fiore e una collina interamente coltivata dalla base alla sommità, ne esistono altre che testimoniano la preistoria del turismo di massa.

Infatti, che fin dal I secolo, con le ville marittime delle Grotte di Portoferraio e di Capocastello al Cavo, i Romani avessero inserito l’isola fra le mete del loro otium, è noto, come è risaputo che ricche famiglie borghesi autoctone e forestiere, ben prima degli anni ‘50, avevano colonizzato i luoghi più incantevoli dell’Elba. Ma era un turismo d’élite, che lasciava vuoti i litorali e quasi invariata la povertà dignitosa della popolazione.

Ad esso, nel corso del decennio ‘50-‘60, si affianca il soggiorno di gente diversa, più modesta economicamente, che sceglie le rare strutture ricettive e il campeggio per godersi le bellezze e la pace dell’isola toscana. Abbiamo così le immagini di tende e roulottes sulla spiaggia della Biodola e di Procchio con panni tesi ad asciugare e auto al seguito; i primi tentativi di ristorante a due passi dal mare a Lacona con tavoli e sedie sotto un tendone, e cabine di legno o incannucciate; i primi ombrelloni e le prime sdraio a interrompere la continuità degli arenili.

Ma appena dietro la sabbia di Lacona, pascolano una pecora e un agnello; la pineta di Marina di Campo ombreggia i pensieri dell’unica presenza femminile che indugia sotto la chioma dei pini; il solitario gozzo del golfo di Fetovaia si gode il silenzio della spiaggia e Cavoli, incorniciato da piante di fichi d’India, appare interamente deserto.

spiaggia di procchio anni 50E mentre Procchio merita l’attenzione del turista-fotografo appena sceso dalla giardinetta, il Cavo, abbracciato al suo mare, guarda il piroscafo Pola che, al largo, attende il barcone col suo carico di passeggeri e Nisporto si presenta come una tranquilla campagna alberata con il mare a lambirla.
Se la Torre di Marciana Marina sembra un fortino assediato dal mare in tempesta, che divora il litorale, quella di Marina di Campo spicca nel suo deciso isolamento rispetto al borgo.

Porto Azzurro si specchia nella quiete del suo golfo, dove sosta un mercantile, mentre, alle sue spalle, sul monte più alto, la croce protegge il paese. Pomonte è tutt’uno col monte dai cui piedi sembra scaturire, con le vigne accanto alle abitazioni, che, a stento, nelle cartoline, si distinguono dalla roccia. I terrazzamenti si arrampicano incredibilmente fino alle vette, raccontando fatica, sudore e tenacia e in basso, sulla costa, in mancanza di un porticciolo, le barche trovano riparo sul litorale sassoso. Seccheto, Chiessi e Sant’Andrea sono un grumo di case bianche di calce, sospese tra cielo e mare, con le colture che sfiorano gli scogli.

Lungo la costiera occidentale, alta e rocciosa, l’asprezza del paesaggio è addolcita dall’agricoltura intensiva, tanto più presente quanto più rari si fanno i pianori: i vitigni allora salgono d’altitudine a costo d’essere collocati su terrazze costruite con sassi di riporto. Natura e coltura si danno la mano, accettano il compromesso, pur di permettere la sopravvivenza degli abitanti e non costringerli all’emigrazione, che pure si mantiene alta, in quegli anni, in tutta l’isola. Similmente avviene sulla costa opposta, quella orientale, dove però le risorse economiche sono più differenziate e la mineraria è di gran lunga prevalente. Le immagini relative a Rio Albano, tra Rio Marina e Cavo, ci svelano quanto il territorio fosse dominato e sconvolto dall’attività estrattiva che aveva spianato o sventrato le colline e vietato l’accesso libero alle coste, punteggiate dai pontili in ferro di caricamento del minerale.

Le foto che riguardano Portoferraio e dintorni ci raccontano un certo dinamismo balneare: la spiaggia delle Ghiaie ospita un discreto numero di persone e primitive strutture, anche se l’ombrellone è unico e così il gozzo sul bagnasciuga. Sullo sfondo, ancora le ferite della guerra, nel tetto scoperchiato della caserma della Finanza. In un altro scatto, la strada della Padulella si snoda come un nastro ben visibile lungo la costa, con poche belle abitazioni a monte e a valle mentre in alto, a sinistra, spicca, in tutta la sua ampiezza, Forte Inglese.

Uno scorcio suggestivo offrono poi i Magazzini, con la pensione Maestrini affacciata sullo specchio di mare antistante e barche a riposo, che una ragazzina in primo piano, di spalle, con le classiche calze bianche corte tipiche degli anni ’50, forse saluta con lo sguardo. Il promontorio dell’Enfola ci appare molto meno boscoso di oggi, la spiaggia è quasi deserta e a dominare sono le strutture della tonnara.

Il Forno, infine, con le sue abitazioni storiche, lontane da qualsiasi affollamento edilizio, ma con i campeggi sull’arenile, racconta un’Elba in bilico tra vecchio e nuovo, tra i fienili profumati di salsedine e la filigrana, ancora in controluce, dello sviluppo economico futuro, tutto incentrato sul turismo, a luci ed ombre, ma ormai ineludibile, come, nel cielo dell’isola, il volo di un gabbiano.

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