La campagna di scavo archeologico svoltasi a San Giovanni (Portoferraio), dal 17 settembre al 6 ottobre nella proprietà della famiglia Gasparri, è frutto della programmazione congiunta di un folto gruppo di istituzioni. Grazie al sostegno dato dal Comune di Portoferraio (Assessore Antonella Giuzio) e dalla Sezione Elba-Giglio di Italia Nostra (Leonardo Preziosi, Cecilia Pacini, Gianfranco Vanagolli), hanno potuto lavorare insieme: Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (Lorella Alderighi), Scuola Normale Superiore di Pisa (Alessandro Corretti), Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Andrea Dini, Claudia Principe), Università di Firenze (Marco Benvenuti), Università di Siena (Franco Cambi), Museo Archeologico di Rio nell’Elba (Marco Firmati). La ricerca archeologica, non più attività del singolo studioso, è lavoro di équipe e armonia fra competenze diverse. Gli enti coinvolti formano l’associazione  “Aithale”, dal nome che i Greci avevano dato all’isola d’Elba.

Allo scavo hanno partecipato dottorandi e studenti di archeologia e di geologia, italiani e stranieri, guidati da Laura Pagliantini, della Scuola di Dottorato in Storia e Archeologia Globale dei Paesaggi (Università di Foggia) e Luisa Zito (Università di Firenze). Giorgia Di Paola (Università di Foggia) e Valentina Trotta (Università di Siena e di Salerno) hanno svolto ricognizioni e rilievi sugli insediamenti fortificati etruschi e romani.
La ricerca, nata con lo scopo di verificare la presenza dei forni antichi per la riduzione dei minerali di ferro e per la produzione di lingotti, apre inattese prospettive di conoscenza storica sul passato dell’isola.
Una prospezione geofisica condotta lo scorso anno dalla archeologa specialista Laura Cerri faceva già intravvedere la straordinaria complessità dell’area e la potenzialità archeologica del sito.
Le tracce di un’attività produttiva legata allo sfruttamento delle risorse minerarie, concentrata soprattutto nella fascia di terreno situata fra la villa della famiglia Gasparri e il mare, erano evidenti. L’attività metallurgica in questa zona era peraltro dimostrata anche dalle numerose scorie di ferro e dai residui di argilla concotta presenti su quasi tutta l’area. Un edificio antico ancora sepolto va localizzato, con ogni probabilità, presso la villa Gasparri e la chiesa di San Marco; nella zona dell’uliveto e nell’area da cui vennero escavate le scorie in età moderna non sembrano invece presenti particolari evidenze archeologiche, forse demolite e asportate durante l’attività estrattiva effettuata sui depositi di scorie di ferro antiche nel corso del Novecento. Negli anni ’40 del secolo scorso l’Isola d’Elba, analogamente a quanto avveniva a Populonia, è stata oggetto di una vasta operazione di asporto e recupero delle scorie ferrose antiche, poi rifuse negli altiforni. Il sito di San Giovanni non fu risparmiato da questo intervento. L’ampio sbancamento della piana è tutt’ora  molto evidente e ha lasciato come traccia una profonda trincea che ha alterato la morfologia del paesaggio e la conservazione del sito archeologico. Remigio Sabbadini, nel 1920,  descrivendo il paesaggio nella pianura costiera di S. Giovanni e confermando l’importanza e la consistenza della lavorazione del ferro in quest’area scriveva: “Tracce sicure di forni si notano presso le Grotte. Tutta la spiaggia di S. Giovanni è coperta di scorie, delle quali una buona quantità fu adoperata per la costruzione di un grosso muro attiguo abbastanza antico”. Le tracce dell’attività antica sono ancora ben visibili nel mare, dove giacciono due grandi “scogli”, formati proprio dall’accumulo di scorie e di scarti di ferro.
Nel corso della prima campagna di scavi a S. Giovanni, inaspettatamente, non sono emerse le tracce delle attività metallurgiche bensì i resti di un imponente insediamento, sviluppatosi nella rada alla fine dell’età repubblicana. Questo, tuttavia, non deve sorprendere, e vedremo perché.
Intanto, sta venendo fuori un grande edificio, crollato, composto da tre ambienti, due dei quali comunicanti tra loro. Le pareti dell’edificio appaiono realizzate attraverso l’impiego della “terra cruda”, tecnica che nell’architettura privata non deve essere considerata necessariamente come indizio di un’edilizia povera. Più semplicemente, la facilità nella messa in opera e la disponibilità delle materie prime rendono più economico il ricorso a queste tecniche.
Le tecniche costruttive realizzate con argilla cruda sono ricordate dall’architetto Vitruvio e trovano sorprendenti analogie con tecniche tradizionali usate fino a tempi recenti e tutt’ora in uso in determinate aree geografiche, dimostrando come sia rimasta immutata, nel corso del tempo, l’arte del costruire con materiali di origine naturale. Le pareti così realizzate, impiegate usualmente per i muri interni, garantivano, oltre alla rapidità e alla economicità della messa in opera, salubrità ed isolamento termico ed acustico.
I muri dell’edificio di S. Giovanni erano realizzati anche con la tecnica del graticcio (o incannicciato): ad una struttura fatta con pali lignei veniva fissato un intreccio di canne palustri, ricoperte poi di un impasto di argilla cruda e paglia tritata, che assicurava maggiore resistenza e compattezza alla superficie. Questa pratica è tutt’ora visibile in molte domus pompeiane: veloci da costruire, caratterizzati da scarso ingombro e leggeri, questi muri erano adatti per gli elevati dei piani superiori.
A San Giovanni la sopravvivenza dei muri in terra cruda è dovuta, con molta probabilità, ad un incendio. Il fuoco ha cotto le strutture, garantendone così la conservazione. Sono stati rinvenuti moltissimi frammenti di argilla cotta, di colore rosso intenso, tracce significative dell’incannicciata di sostegno e resti lignei carbonizzati. Le pareti erano rivestite di intonaco bianco, i pavimenti decorati con cocciopesto o con inserti di tessere di mosaico.
I diversi ambienti dell’edificio dovevano affacciarsi su di un vasto cortile, nel quale sono stati identificati cinque dolia defossa, ovvero dei grandi contenitori di ceramica, interrati fino all’imboccatura, utilizzati per la fermentazione o la conservazione del vino e capaci di contenere oltre 1.000 litri. Questa è, al momento, la scoperta più importante di questa prima campagna di scavo.
Il ciclo di produzione del vino prevedeva:
– raccolta delle uve;
-pigiatura delle vinacce
-fermentazione del mosto e, per alcuni vini, l’invecchiamento.
L’uva veniva pigiata con i piedi in apposita vasca (calcatorium); le vinacce erano ammassate sotto il torchio e pressate; il mosto veniva raccolto in un primo bacino di raccolta, il lacus, e in seguito trasferito, attraverso un sistema di condutture, all’interno dei dolia, dove giungeva a compimento la fermentazione.
Il doliarium dell’edificio di S. Giovanni doveva essere più esteso rispetto ai cinque contenitori finora individuati (due sono stati scavati). All’interno dei dolia sono stati trovati consistenti elementi di crollo degli ambienti: laterizi, tegole, argilla cotta, frammenti di incannicciato, resti di pavimenti e di intonaco delle pareti. Al di sotto di essi, sprofondati e collassati per il peso dei crolli delle strutture, sono emersi gli orli e le parti superiori delle pareti dei grandi vasi. Sulle pareti erano presenti alcuni numerali, forse riferibili alle capacità dei contenitori. Un bollo in planta pedis recante l’iscrizione, incompleta, HERMIA FECIT, corredata dall’immagine di un delfino, va interpretato come marchio di fabbrica.
L’edificio e i dolia risalgono al periodo compreso fra II e I secolo a.C. Il loro  abbandono è sancito da un incendio avvenuto nel I secolo d.C. Considerato il periodo e il luogo del ritrovamento, si pensa che questo edificio sia da collegare alla villa delle Grotte, situata sul promontorio adiacente, e che ne rappresenti la pars rustica, ovvero l’insieme degli ambienti destinati alla produzione e conservazione delle derrate alimentari.
La villa romana delle Grotte sorge sul promontorio che delimita verso sud-est la rada di Portoferraio, separando la pianura di San Giovanni da quella di Magazzini. Posta ad una quota di 50 metri s.l.m., la villa domina il braccio di mare compreso fra Piombino e la rada di Portoferraio, chiusa sull’altro lato dalla villa romana della Linguella. I dati materiali collocano nella seconda metà del I secolo d.C. il momento di abbandono della residenza, in piena concordanza con i dati sull’abbandono della pars rustica.
Il sito di San Giovanni appare molto promettente. Le costruzioni e i dolia sono straordinariamente conservati ed il prosieguo dello scavo sarà un’occasione fondamentale per mettere in luce le caratteristiche di un insediamento produttivo e verificare l’esistenza  di una produzione locale di vino. Non sarà tuttavia abbandonata la ricerca delle fornaci per il ferro, con ogni probabilità ancore sepolte sotto ciò che resta della fattoria romana. Questa ricerca è importantissima perché consente di individuare un momento di svolta nella storia economica dell’Elba antica e di illuminare un aspetto della geografia ambientale e umana del quale poco si sa.
Nei giorni della ricerca sono state organizzate visite guidate sul sito. E’ stato fatto un piccolo, ma promettente, esperimento di riduzione del minerale di ferro. Sono state effettuate ricognizioni su alcuni importanti siti archeologici dell’isola. Nei prossimi mesi cercheremo di organizzare un incontro pubblico di comunicazione dei risultati, magari nella sede del Parco Nazionale Arcipelago Toscano. Cercheremo anche di raccontare via via i progressi della ricerca sulla pagina Facebook: “Aithale- Terra, mare e uomini nell’Arcipelago Toscano”. Lo scavo di San Giovanni deve continuare, non c’è dubbio.
Alla famiglia Gasparri (Raffaella, Chiara e Paolo) dobbiamo gratitudine in tutti i sensi, soprattutto per la cortesissima ospitalità (gli alloggi per gli archeologi sono stati messi a disposizione dalla famiglia). Ringraziamo il Comune di Portoferraio e Italia Nostra per il sostegno finanziario.

Lorella Alderighi, Marco Benvenuti, Franco Cambi, Caterina Chiesa, Alessandro Corretti, Andrea Dini, Giorgia Di Paola, Marco Firmati, Laura Pagliantini, Claudia Principe, Valentina Trotta, Luisa Zito.

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