Lo incontrai, finalmente, a Portoferraio. Mi sfugge l’occasione e non mi si chieda l’anno. Passeggiamo per un po’, conversando. Era un pomeriggio, sciroccoso, appiccicoso; il piovasco incombeva sulla dàrsena. Accompagnavano, monotoni, i nostri passi i cigolii del sartiame delle barche all’ormeggio. Era l’ inchiostro grigio nel quale intingeva la sua penna, quando non la tuffava in una soluzione sulfurea di cui solo lui conosceva la formula. Era a suo agio. Io, più che altro, ascoltai. E continuai ad ascoltarlo, da quel giorno non so quante altre volte ancora. Di norma, incollato al telefono. Diventò una consuetudine sentirci ogni due o tre settimane. Lui a Milano e io qui. Succedeva quasi esclusivamente di  notte. Siccome era reduce dalla sua quotidiana ricognizione nelle strade della metropoli, me ne accennava, ma con una sorta di ritrosia, come se temesse di annoiarmi. Raccontava, sulle stesse esitazioni, anche di puntate fuori porta in buona compagnia: con Montanelli e Gianni Brera, ad esempio. Intorno a una tavola di sapori antichi, ad accalorarsi per il Milan e per l’Inter. Ogni quadro, ancorché sempre dipinto con due pennellate, qualunque ne fosse la cornice, mi arrivava compiuto. Semmai lo appiattiva una luce fioca o smorzata: che era quella dove più stagliava, attraversandola, un’improvvisa saetta di zolfo, fine come uno spillo, micidiale come un proiettile. Provavo ad immaginarne l’effetto sulla vittima e mi appariva un polendone Brera demolito, nonostante la sua nota reattività e, viceversa, un Montanelli, maledettissimo toscano, anche lui, al colmo della goduria, per aver visto l’aria trinciata da un’inarrivabile, intelligente cattiveria.

La notte incoraggiava le confidenze e me ne arrivavano di succose, dall’altra parte del filo, sebbene sempre civilmente contenute. Erano molti gli scrittori e i giornalisti di cui OdB aveva un’opinione positiva, ma assai di più erano quelli che riteneva fossero tenuti in piedi solo dalle stampelle dei partiti, delle corporazioni  e delle consorterie. Uno ne bersagliava, in particolare, che un tempo resse le sorti del “Corriere della sera” divenuto strumento della Solidarietà nazionale. Nondimeno gli appunti che muoveva raramente erano  delle sentenze: erano piuttosto segmenti di un’analisi compiuta dall’interno di un ambiente, tanto prolungata da potersi definire senz’altro storica. Perché il Nostro aveva cominciato a lavorare nel ’40, al “Bertoldo”, e non si era fermato più. Ne aveva conosciuto di gente, facendosi le ossa: anche con Luigi Berti, merita ricordarlo, di cui fu redattore nell’avventura di “Inventario”, l’importante rivista internazionale fondata dal letterato riese nel ’46. La sua memoria si manteneva straordinariamente viva, come la sua prontezza, sicché ogni domanda aveva una risposta, puntuale, agganciata a fatti, a circostanze; una risposta costantemente affidata a battute essenziali, per cui poteva dirsi che contavano di più i silenzi che ci metteva in mezzo. Quando capii che quelli li lasciava riempire a me, avvertii la gioia e la responsabilità della sua stima (non sempre ben collocata, devo dire, poiché laddove presumeva che sapessi avevo, invece, talora, dei crateri lunari, la cui ampiezza mi si apriva improvvisa e terrificante; e laddove presumeva che intuissi, vedevo solo buio). Sapevo, però, che nel momento in  cui distingueva tra scrittori  e scrittori, partiva da Gide. In ciò stavano la mia bussola e le mie effemeridi, che mi salvavano, a patto di tenere un occhio (molto aperto) anche su Musil, Svevo e Moravia, nonché su Sartre e Camus.

La cosa più complicata, con OdB, era parlare dei suoi romanzi. Per la semplicissima ragione che, salvo un assassinio mai commesso, sono autobiografici: lo sono drammaticamente, come lo è il vissuto di  ogni uomo che non sia fatto di legno, ma di carne e anima, o che non sia un imbecille totale. Ne consegue che si tratta di un unico filo svolto per parecchie leghe. Né, d’altra parte, c’era da soffermarsi molto sullo stile e sulla lingua, assolutamente impeccabili, se non per sottolinearne la distanza da tutte le letterature che Brignetti definiva, marchiandole a fuoco, “oh Peppì”. Per pura ingratitudine era diventato, intanto, il mio chiodo fisso. Così glielo proponevo di continuo, ripassandone di volta in volta dei capitoli. Ma il problema era che stava già tutto lì.  Altre ‘confessioni’ non servivano. Allora speravo che da Milano si alzasse la scala di Giacobbe per salire fino alla soglia di una sfiducia nella letteratura, proclamata in mille occasioni e puntualmente smentita. Ma si può trovare il cuore di una contraddizione? “E’ la cocciutaggine”, mi fu detto, una  notte. Mi contentai, soddisfatto di veder polverizzate da tre parole semplicemente umane tutte le categorie filosofiche che avevo raccolto e tenuto in pronto. Serbai per me una sola remora, che era la convinzione che ci fosse uno scavo tuttora in corso, andando a spiare il quale si rischiava la legittima reazione del pudore.

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