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Dieci anni fa moriva Oreste Del Buono – Il ricordo di Gianfranco Vanagolli

15 Ottobre 2013
by Gianfranco Vanagolli
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Se lo portavo all’Elba, OdB evitava accuratamente la retorica della culla o dell’eden perduto. Del resto, la retorica era la sua bestia nera comunque e dovunque. Sono rimaste famose le sue stilettate contro la retorica della Resistenza (si ricorderà, a scanso di equivoci, come nel suo cursus ci fossero diciannove mesi di lager), che i professionisti della materia, mangiandoci e sporcandola in tutti i modi possibili, alimentavano senza sosta. Elba, nella sua produzione, voleva dire innanzitutto Acqua alla gola. Voleva dire il protagonista Berto alle prese con un viaggio di nozze sui generis, con i mal sopportati parenti, con un microcosmo riscoperto senza entusiasmo. Nel centro sfondo del romanzo, Marina di Campo, egli tornò, una volta: per rimanerci definitivamente, disse. Andai a dargli il benvenuto. Lo vidi da lontano, nella piazzetta dove una targa ricorda il sacrificio di suo zio, Teseo Tesei, l’eroe di Malta, in nome del quale era andato volontario in Marina, nel ’43. Camminava spaesato, si capiva che quello non era il suo posto. Dall’Elba (dal Poggio, dov’era nato l’8 marzo 1923) era partito ancora bambino, con il ricordo oppressivo della villa  magniloquente del nonno Pilade, un notabile di spicco nell’Italia dei notabili, megalomane dissipatore di patrimoni. La sua vita si era svolta a Milano. E lì tornò, in quattr’e quattr’otto. Ci fu chi gliene volle, scioccamente. Furono quanti pensavano che la letteratura cominciasse e finisse con i Versacci di Ninna (così come la storia con i Come eravamo rionali). Anche una sua, tiepida, condivisione della vicenda del Premio letterario Elba durò poco. OdB si alimentava della città, che era la vetrina dei grandi fenomeni di massa, sui quali si appuntavano la sua attenzione e la sua inesauribile curiosità. Per me, andavano bene anche le conversazioni telefoniche: ci avevo preso la mano. E poi, in notturna, non c’era pericolo di distrazioni: gli argomenti si susseguivano senza soluzione di continuità. Mi ero convinto, peraltro, che il mio interlocutore amasse il telefono, dietro il quale trovava più facile schermirsi, in omaggio a un’indole schiva e recalcitrante di fronte ad ogni esibizione, anche la meno formale.

Proseguì per anni il nostro colloquio a distanza. Dal quale OdB non guadagnava nulla, mentre io entravo ogni volta in una miniera per uscirne indicibilmente arricchito. Non compensavano le informazioni che potevo dargli sul mondo della scuola. Trovava conferme alla sua giustificata convinzione che la lingua italiana stesse svilendosi in uno slang made in Broccolino nei temi dei miei studenti. Glieli leggevo laddove recitavano, ad esempio: “Ligurio incontrò mister Nicia”, facendo saltare messer Machiavelli nella tomba, o “Venezia aveva i Doges”. Anch’io attingevo a una bella carica di cocciutaggine.

Lo vidi per l’ultima volta ancora a Marina di Campo. Venne ad una cerimonia organizzata da quel comune, cui aveva regalato una parte consistente della sua biblioteca e un terreno da trasformare in un campo sportivo. Trascorremmo insieme un intero pomeriggio, passeggiando da soli su e giù davanti al lungomare. Avevo accanto un uomo anziano e stanco, sebbene ancora lucidissimo. Il suo dono parlava di un rapporto recuperato con l’isola e con il paese dove aveva la casa, ereditata da Teseo. D’altra parte, le premesse di ciò erano già tutte in Acqua alla gola: l’isola era almeno la riconciliazione con la natura. Allora tanto si coglieva e si apprezzava, ma non bastava. Ora, dopo un lungo percorso, lo si riteneva desiderabile.

Da anni, ormai, OdB non scriveva più romanzi. Gliene chiesi la ragione. Mi rispose, dopo un lungo silenzio, che non aveva più nulla da dire. Era la risposta che mi aspettavo: lo scavo era finito.

Nel 2000 si trasferì a Roma. Ci sentimmo sempre più di rado. Sofferente, parlava malvolentieri e con fatica. Poi, un giorno d’ottobre del 2003, mi chiamò l’editore Dalai, il nipote, per il quale tempo prima, per una breve stagione, aveva ripreso in mano “Linus”, lasciato nel 1981, e me ne porse l’estremo saluto.

Constato con rammarico, dal mio angolo oscurissimo, ma non chiuso alla gratitudine, il silenzio che, salvo lodevoli eccezioni, l’Italia riserva ad uno tra i suoi maggiori scrittori e intellettuali del secondo Novecento. “Quando – scrive sul “Corriere della sera” Ranieri Polese – “nel 1994, pubblicando i trentatré ritratti di Amici, amici degli amici, maestri”, OdB “diceva che il suo era un atto di riparazione per quelle persone della sua generazione che avevano avuto la ‘crudele ricompensa di essere dimenticate in fretta’, forse pensava anche a sé”.

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